La flessibilità metabolica: come influenza la composizione corporea
Si torna a parlare di metabolismo. Quel delicato complesso di reazioni e interconnessioni tra sistemi e apparati che ci rendono quello che siamo. Ci sono persone che si definiscono erroneamente con un metabolismo lento, ad indicare che nonostante i loro sforzi non riescono ad avere una composizione corporea che scenda sotto ad una determinata percentuale di massa grassa.
Il concetto di flessibilità metabolica è quanto di più vicino a spiegare il perché alcune persone facciano fatica a perdere peso e altre invece riescano a rimanere con una percentuale di grasso al di sotto di un certo range.
La flessibilità metabolica: che cos’è?
Può essere definita come la capacità di rispondere e/o adattarsi a determinate richieste metaboliche (Goodpaster, Sparks 2017). Da questa definizione si capisce facilmente il motivo del perché nel corso degli anni si sia diffusa l’idea che alcune persone fossero munite di un metabolismo “lento” e altre di un metabolismo “veloce”. Sarebbe probabilmente più corretto parlare di persone con un’inflessibilità metabolica e altre con un’alta efficienza.
Le ragioni che regolano le flessibilità metabolica sono diverse. Alcune di queste sono:
- dispendio energetico giornaliero dal NEAT;
- introito calorico;
- attività fisica.
L’origine del termine “flessibilità metabolica” la si deve allo studio di un parassita, l’elminta, e alla sua capacità di adattarsi ad ambienti differenti generando metaboliti sia aerobicamente sia anaerobicamente.
L’inflessibilità metabolica e le differenze tra individui
Nel mondo clinico, il concetto applicato agli elminti è stato ereditato per spiegare i meccanismi alla base dell’insulino-resistenza e per identificare una condizione definita inflessibilità metabolica. Si potrebbe dire che questa condizione è l’incapacità da parte del corpo di utilizzare efficacemente i nutrienti, portando a problematiche metaboliche, tra cui:
- disregolazione del metabolismo glucidico;
- alterazioni del metabolismo lipidico.
L’inflessibilità metabolica è alla base della sindrome metabolica, del diabete mellito di tipo 2 e dell’eccesso di grasso bianco.
Nell’insulino-resistenza il tessuto muscolare, ma in generale la situazione è diffusa a livello periferico, si ha un’incapacità di utilizzare il substrato glucidico e lipidico in maniera ottimale, a causa di un’alterazione del metabolismo dell’insulina. L’insulino-resistenza è uno dei concetti chiave che porta a spiegare l’inflessibilità metabolica. L’insulina regola lo “shift” energetico tra l’utilizzo del glicogeno e quello degli acidi grassi.
In quest’ottica bisogna immaginare che l’insulino-resistenza è un fenomeno complesso e come tale andrebbe analizzato da più prospettive. Se da una parte c’è un problema di stampo endocrinologico con resistenza periferica, dall’altro si verificano adattamenti anche a livello di altre strutture cellulari, come i mitocondri. Questi ultimi diventerebbero in condizioni patologiche meno capaci di ossidare i grassi, con conseguenze serie alla nostra salute e alla prestazione fisica.
Come essere flessibili a livello metabolico
Come indicato nello studio di Goodpaster e Sparks, sappiamo che l’attività fisica è in grado di aumentare la nostra flessibilità metabolica. Per spiegare questo concetto si è parlato di “plasticità muscolare”, termine del 1980 che identificherebbe la capacità del muscoli di rispondere e di adattarsi a diversi stimoli. La stimolazione del tessuto muscolare renderebbe il nostro sistema più capace di utilizzare i substrati energetici.
L’attività fisica, come spiegato nell’articolo “cos’é l’irisina?” è in grado di influenzare anche il nostro tessuto adiposo bianco (WAT) e la sua capacità termogenica, in un processo definito browning. Il browning rappresenta l’aumento della capacità termogenica del grasso corporeo, con un aumento della biogenesi mitocondriale e la conversione del tessuto adiposo bianco in bruno.
Soggetti sedentari tendono ad avere una termoregolazione alterata e un WAT definibile come “pigro”. Tutto questo porta ad una più alta quota di acidi grassi liberi circolanti e ad una lipolisi inefficace, uno dei fattori chiave dell’insulino-resistenza.
Quali strategia abbiamo nella pratica per poter essere più flessibili metabolicamente?
Abbiamo tre strategie che dovrebbero essere analizzate insieme, per guidare il soggetto in un percorso multi-disciplinare:
- Attività fisica/esercizio fisico programmato da un esperto;
- Dieta bilanciata da un professionista della nutrizione;
- Agire su diversi stili di vita, compreso il benessere psicologico.
Il ruolo dell’attività fisica per aumentare la flessibilità metabolica
L’attività fisica è in grado di aumentare fino a 25 volte il dispendio energetico che abbiamo a riposo (Goodpaster, Sparks 2017). L’influenza che tutto questo può avere sulla flessibilità metabolica è innegabile, specie osservando soggetti sportivi e atleti rispetto a persone sedentarie.
La richiesta metabolica durante dell’esercizio fisico vigoroso diventa tale da portare il corpo ad utilizzare efficacemente i diversi substrati energetici. La flessibilità metabolica, in questo contesto, è influenzata principalmente dall’intensità e dalla durata dell’esercizio (Goodpaster, Sparks 2017).
Durante un esercizio fisico intenso si verifica:
- un aumento dell’ossidazione del glucosio;
- una riduzione dei livelli di insulina circolanti;
- una riduzione dell’ossidazione degli acidi grassi.
Come riferito dalla studio del 2017 riportato nelle referenze, ma con riferimento ad una ricerca del 1990, la liberazione di catecolamine è importante per la loro capacità di far liberare dal WAT acidi grassi liberi (principalmente dal tessuto adiposo addominale sottocutaneo). Tuttavia anche il tessuto adiposo viscerale in questo contesto viene influenzato dall’esercizio fisico.
Svolgere dell’esercizio fisico regolare consente di aumentare la flessibilità metabolica, anche in persone con patologie, come il diabete di tipo 2.
In breve, si può dire che l’attività fisica è in grado di:
- contrastare la resistenza insulinica incentivando la sensibilità delle cellule verso l’ormone pancreatico;
- aumentare lo stoccaggio di glicogeno muscolare;
- incentivare la biogenesi mitocondriale e la capacità di ossidazione degli acidi grassi.
L’esercizio fisico è in grado inoltre, una volta che le scorte di ATP muscolari si abbassano, di innalzare i livelli di AMPK, importante per la beta-ossidazione degli acidi grassi attraverso la stimolazione del coattivatore 1 del proliferatore gamma del perossisoma (PGC1-alfa). Una serie di reazioni a cascata collegate con l’AMPK e il PGC1-alfa sono alla base del processo della biogenesi mitocondriale.
Il ruolo dell’alimentazione
Non è da dimenticare il ruolo che ricopre l’alimentazione e una dieta a restrizione calorica nell’incentivare la sensibilità insulinica. Unitamente all’esercizio fisico, una dieta a restrizione calorica è in grado di ottimizzare la funzionalità mitocondriale, anche se non sembra essere altrettanto efficace ad ottimizzare l’ossidazione degli acidi grassi a livello muscolare, come avviene invece con l’esercizio fisico (Goodpaster, Sparks 2017).
A cura del Dr. Giulio Merlini
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Tag:biologia e sport