Contestualizzare l’allenamento funzionale: concetti chiave
Tutti parlano di allenamento funzionale. Libri fotografici che vogliono insegnarci esercizi arricchiti da tabelle di allenamento che ti promettono un risultato rivoluzionario.
Il nome “allenamento funzionale” è più uno slogan pubblicitario piuttosto che un vero metodo. Perché il metodo ce lo raccontano la fisiologia, la biochimica e lo studio della biomeccanica umana. Eppure siamo tutti in cerca della formula magica o del corso che ci proponga un bella carrellata di esercizi messi “a caso”, il più delle volte, ed etichettati quali allenamento funzionale.
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Compriamo delle speed ropes, delle clubbels e due kettlebells e il gioco è fatto. Giusto?
Sbagliato
Ogni esercizio ha una sua finalità.
Cercheremo di eseguire delle brevi riflessioni per portare il professionista a porsi delle domande, a cui dovrà dare delle risposte nella sua pratica quotidiana.
Contestualizzare l’allenamento funzionale
Innanzitutto: funzionale a chi e per cosa?
Funzionale per chi?
Se intendiamo funzionale per le proprie caratteristiche significa automaticamente che non è un lavoro di gruppo, ma automaticamente un discorso da affrontare one to one. Non basta usare una palla riempita d’acqua e qualche sandbags per chiamare un allenamento “funzionale”.
La prima domanda, cioè “funzionale per chi?” ci ha già portato ad escludere molti lavori di gruppo che vediamo in molti centri (e purtroppo anche in molti corsi di formazione). Comprendiamo bene il lato commerciale di nominare quali “funzionali” circuiti al limite dell’eccesso, dove persone condizionate e muscolose iniziano a muoversi insieme a persone palesemente con qualche chilo di troppo. Gli uni che per adeguarsi agli altri utilizzano strumenti troppo leggeri, mentre i secondi sono impegnati a non farsi venire un infarto mentre magari qualche bel genio gli propone una sfilza di burpees (visti pochi minuti prima su YouTube).
Ma il funzionale non è questo.
L’allenamento affinché sia funzionale deve necessariamente essere “pertinente” ad una data persona.
Un esempio sono gli allenamenti “funzionali” nelle esercitazioni calcistiche svolte in palestra su diversi giocatori, che cercano di lavorare con il nordic hamstring ed esercizi affini per ridurre il rischio di infortuni sui femorali. E non c’è da stupirsi che si eseguano anche lavori di gruppo in tal senso. Questo può essere considerato un allenamento funzionale specifico. Funzionale per prevenire possibili infortuni nel calciatore, unitamente ad esercitazioni con sovraccarichi per garantire il corretto condizionamento sulle catene cinetiche.
E i lavori del pre-atletismo che ci siamo persi per strada?
Quelli erano un allenamento funzionale coordinativo di base per tutti gli sport. Dalla skip bassa, ai cambi di direzione, agli allunghi, affondi e scatti.
Le basi dei movimenti umani riproposti in diverse esercitazioni. Dalla camminata “a gattoni” a posizioni in quadrupedia per allenare il gesto su più piani e assi di movimento.
E il tutto senza palle di ghisa su piani instabili o avvenieristici gesti della pesistica olimpica riproposti “a caso” con la modalità in instabilità che piace tanto ultimamente. Più che un allenamento sembra una gara a chi propone l’allenamento più esuberante.
Funzionale per cosa?
Vediamo un caso classico.
Siamo dei neo-iscritti in un centro fitness e il trainer di turno inizia a proporci una serie di esercizi con elastici, palle mediche e attrezzi che devono simulare solo alcuni degli allenamenti che si vedono ultimamente.
Il dramma di tutto è che il soggetto medio appena descritto non ha alcun controllo del suo stesso corpo. Figuriamoci con piccoli o grandi attrezzi.
L’allenamento funzionale, così come lo si propone oggi, resta una cozzaglia di elementi random che non sono contestualizzati per il caso specifico.
Un piccolo suggerimento: ripartiamo dal corpo libero.
Un corpo “funzionale” è in grado di gestire i movimenti di base nello spazio con maestrìa motoria, prima ancora di utilizzare piccoli e grandi attrezzi.
Un’analisi accurata di un personal trainer esperto garantisce di migliorare tutti quei distretti muscolari più deboli. Questo significa automaticamente individualizzare e adattare il lavoro.
Le proposte che ritroviamo nella maggioranza dei libri sono fuorvianti e distanti dalla realtà dei fatti.
Ad ognuno il suo allenamento funzionale
Per ora abbiamo fatto diversi rimandi al mondo del wellness e meno al mondo della performance sportiva.
In questo secondo caso tutto cambia. Lo vediamo nella respirazione “in apnea parziale” adottata nel powerlifting per garantire stabilità al gesto tecnico alle esercitazioni in ROM incompleto che vediamo nella pesistica olimpica per allenare determinati angoli.
Tutto viene contestualizzato per un fine: il miglioramento del gesto specifico.
Fareste mai fare un esercizio in apnea ad un vostro cliente cinquantenne, con problemi di ipertensione? Probabilmente no. Eppure in molti sport si educano gli atleti ad eseguire una respirazione di questo tipo perché è “funzionale” allo scopo.
Perciò, poniamo qualche domanda che potrebbe aiutarci ad avviare un ragionamento nel futuro.
Quando proporre un lavoro concorrente e per quale obiettivo? Non rispondete sull’onda di cosa pensate di sapere. Cercate informazioni nelle banche dati scientifiche e vediamo se esistono già delle risposte.
Quando è utile il cheating e l’utilizzo di carichi elevati in un soggetto neofita? Lo fareste mai fare?
Quando e per chi è utile adottare i lavori in instabilità con l’utilizzo di tavole propriocettive?
L’allenamento funzionale parte dalle domande: a chi e per cosa?
Il “come” in allenamento
Ultima domanda, tutt’altro che banale per un trainer e che si ricollega a quanto appena esposto è il COME facciamo eseguire un dato esercizio.
Ora sappiamo che contestualizzare l’allenamento funzionale passa da queste tre domande:
- per chi?
- per cosa?
- come?
Quale velocità esecutiva risulta più appropriata e per quale scopo? Modificare gli angoli articoli o eseguire un ROM parziale ha senso e in quali casi è utile?
Cerchiamo le risposte. Dapprima nel mondo accademico e poi nel mondo pratico. Le abbiamo trovate o continuiamo a proporre cose “a caso” viste e sentite da colleghi o profili sui social?
Conoscere significa sapere usare approfonditamente alcuni concetti e spiegare il perché di determinate pratiche.
Buona programmazione.
Corebo – La Scienza al Servizio dello Sport
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